LE TOMBE DEI MEDICI

LE CAPPELLE MEDICEE
Le Cappelle Medicee fanno parte del complesso monumentale sviluppatosi intorno alla chiesa di San Lorenzo, capolavoro di Filippo Brunelleschi, dai primi decenni del Quattrocento fino agli inizi del XVII secolo.

Il progetto per la tomba della potente famiglia fiorentina prese avvio nel 1520 quando, con Michelangelo, vennero iniziati i lavori della Sacrestia Nuova, piccolo ambiente che dalla parte opposta della chiesa risponde alla brunelleschiana Sacrestia Vecchia.

Essa doveva contenere le tombe di Lorenzo il Magnifico e del fratello Giuliano e quelle dei discendenti.

Nell’impianto architettonico e nei colori dei materiali impiegati da Michelangelo l’omaggio a Brunelleschi è esplicito: la pianta è quadrata con una piccola abside, pure quadrata; la copertura dell’aula è una cupola emisferica, retta da pennacchi angolari, con membrature portanti in pietra serena (grigio scuro) che spiccano sul candore delle pareti.

Ma alla nitida misura matematica dello spazio brunelleschiano si sostituisce un’architettura plastica e monumentale: le proporzioni si slanciano in altezza per l’introduzione, tra l’ordine inferiore e l’imposta della cupola, di una fascia intermedia ripartita da lesene che inquadrano finestre e arcate cieche; nei lunettoni superiori, le finestre, genialmente rastremate verso l’alto, accentuano lo slancio ascensionale verso la cupola a classici cassettoni, conclusa da una alta e luminosa lanterna. Dopo aver terminato nel 1524 la parte architettonica Michelangelo si dedicò, fino al 1533, alle statue dei sarcofagi.

Malgrado sia rimasto incompiuto e abbia avuto vicende esecutive molto travagliate, il complesso di sculture della cappella rappresenta uno dei vertici dell’arte di Michelangelo e la realizzazione di quei pensieri sul monumento funebre intorno ai quali l’artista si era impegnato fin dall’epoca della tomba di Giulio II.

La glorificazione dinastica viene completamente assorbita nell’esaltazione classica dell’eroe, solo di fronte all’ineluttabile vicenda del destino umano, capace di accettare con stoica serenità la sofferenza e la morte.

Le due statue dei duchi non sono “ritratti” ma figure ideali e nel loro atteggiamento simboleggiano le virtù del “principe”: Giuliano incarna l’energia e il coraggio risoluto; Lorenzo la prudenza e la riflessione. Dalle loro nicchie le statue dei duchi guardano verso il fulcro spirituale della cappella, nel quale si riassumono il concetto pagano dell’esaltazione dell’uomo e la speranza cristiana dell’immortalità dell’anima: la statua della Madonna col Bambino sull’incompiuto sepolcro del Magnifico e del fratello Giuliano.

Concludono il ciclo michelangiolesco le statue della Madonna con il Bambino (1521) fra i Santi Cosma e Damiano, opere, queste ultime due, di allievi, poste a sigillare con la fede dogmatica il dubbio tutto laico dell’artista. L’immagine della Madre, simbolo della vita, intermediaria tra l’uomo e Dio, dimostra ancora una volta, nell’esclusione di ogni tradizionale elemento iconografico della Vergine in trono, quanto sia indipendente e anticonvenzionale l’interpretazione di Michelangelo dei soggetti religiosi.

I sarcofagi sono decorati con figure interpretabili come allegorie delle parti del giorno: la Notte e il Giorno, l’Aurora e il Crepuscolo.

I modelli di queste statue, di intensa vitalità plastica, sono rintracciabili nelle rappresentazioni di divinità fluviali diffuse nell’arte tardo-romana; ma la tensione spirituale ed emotiva che ne emana – il lento, quasi doloroso distendersi dell’Aurora, il greve ripiegarsi su se stessa della Notte, l’affiorante energia del Giorno, l’assorta malinconia del Crepuscolo – è di una tale forza da riassorbire e bruciare ogni riferimento culturale.

Qui la morte non è contemplata tanto in una visione cristiana o comunque religiosa, quanto è spunto per una scenografica e teatrale rappresentazione dell’immortalità della dinastia medicea.

È l’esempio, estremamente raro a Firenze, di un apparato complesso ed enfatico dai molteplici significati didascalici e allegorici, rutilante di forme, figure e colori propri dell’arte barocca. Al presbiterio e al coro di San Lorenzo fu poi aggiunta, come terza sagrestia, la Cappella dei Principi; i lavori a questa ed alla sottostante cripta furono iniziati da Ferdinando I nel 1604 e conclusi solo nel Novecento; all’interno vi sono le tombe degli ultimi Medici, che diventarono i signori di Firenze dopo il 1536. La cripta è costituita da un vastissimo ottagono a cupola, dalle pareti incrostate di marmi rari, pietre dure e semi-preziose.

La cupola, che doveva essere intarsiata di lapislazzuli, venne affrescata nel 1829 con storie della Creazione e il Giudizio Finale. I sei sarcofagi ricordano i Granduchi sepolti nella cripta. Solo due nicchie recano colossali statue in bronzo dorato del XVII secolo. Le altre nicchie restarono incompiute. Intorno alle pareti sono raffigurati i sedici stemmi delle città toscane e di Firenze; l’altare ed il pavimento in mosaico sono moderni.

LA FAMIGLIA DE’ MEDICI
La chiesa di San Lorenzo, chiesa ufficiale dei Medici fin da quando abitavano da privati cittadini nel loro palazzo di Via Larga (oggi via Cavour), divenne anche il loro splendido sepolcro fino all’estinzione della famiglia; il primo che vi volle sepoltura fu Giovanni de’ Bicci de’ Medici (m. 1492), che con la moglie Piccarda si fece seppellire nella piccola sacrestia brunelleschiana; più tardi suo figlio, Cosimo il Vecchio, fu sepolto nella crocera della basilica. Quella dei Medici è una stirpe che affonda le sue radici nella campagna toscana, e precisamente nel Mugello, dove nella villa-castello di Cafaggiolo si identifica la loro “culla”.

La prima traccia storica la si trova però a Firenze, quando Salvestro di messer Alamanno dei Medici si allea al “popolo minuto” nell’episodio del tumulto dei Ciompi (1378).

Contadini inurbati, i Medici si trasformano in mercanti e poi in banchieri.

Il fondatore della fortuna familiare è Giovanni di Bicci (1360-1429), che all’inizio del Quattrocento ha accumulato una vistosa fortuna attraverso il fondaco delle merci e il banco, ma anche grazie all’appalto della riscossione delle gabelle del Comune. Giovanni si fa amare per la sua prodigalità ed è anche il primo mecenate della famiglia: protegge il giovane Masaccio e finanzia la ricostruzione della basilica di San Lorenzo, affidando il progetto al Brunelleschi.

Dal suo matrimonio con Piccarda Bueri nascono due figli: Cosimo (1389-1464) e Lorenzo (1395-1440), entrambi detti “il Vecchio”, da cui avranno origine i due rami della famiglia.

I discendenti di Cosimo saranno, fra alterne fortune, signori di Firenze fino al 1537: in linea diretta si tratta di Piero detto il Gottoso, Lorenzo detto il Magnifico (1449-1492), Piero detto lo Sfortunato (1471-1503), Lorenzo duca d’Urbino (1492-1519). Ultima discendente legittima di questo ramo sarà Caterina (1519-1589) poi regina di Francia, mentre il primo duca di Firenze sarà Alessandro detto il Moro (1510-1537), bastardo di Giulio dei Medici (1477 ca. – 1534) che fu papa col nome di Clemente VII.

Nel frattempo i Medici discendenti da Lorenzo il Vecchio vivono all’ombra dei primi, talvolta anche approfittando delle disgrazie del ramo primogenito o provocandole. Da Lorenzo il Vecchio nasce Pier Francesco, anch’egli detto il Vecchio, e, da questi, Lorenzo e Giovanni. Entrambi i fratelli depongono il nome di Medici e si ribattezzano “Popolani” nel 1494, al momento della cacciata da Firenze di Piero lo Sfortunato, in parte provocata anche dalle loro trame. Da Giovanni il Popolano nascerà invece il capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere (1498-1526), a sua volta padre di Cosimo I, fondatore della dinastia dei Medici, granduchi di Toscana, che reggerà lo Stato fino al 1737. Giovanni di Carlo Strozzi per elogiare La Notte aveva scritto a Michelangelo:

“la Notte che tu vedi in sì dolci atti
dormir, fu da un Angelo scolpita
in questo sasso e, perché dorme, ha vita:
destala, se nol credi, e parleratti”.
Lui risponde facendo parlare la statua:
“Caro m’è ‘l sonno, e più l’esser di sasso,
mentre che ‘l danno e la vergogna dura;
non veder, non sentir m’è gran ventura;
però non mi destar, deh, parla basso.”

Siamo nel 1545 o 1546 e pare che lui autorizzi un’interpretazione politica alludendo al dispotismo di Cosimo de’Medici.


Articolo tratto da: https://www.oltremagazine.com/
Autore dell’articolo: GENNARO NAPOLI E FLAVIA VACCHERO

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